Il paziente è l’unico esperto della sua psicoterapia. In questo interessante e recente articolo (la cui lettura consiglio agli addetti ai lavori anglofoni), Swift Tomkins e Parkin (2017) mettono in luce una cosa che a volte noi terapeuti abbiamo difficoltà a comprendere. Possiamo avere in mano il miglior modello teorico o il miglior protocollo di intervento, ma solo i pazienti sanno quando i nostri interventi aiutano e quando sono inutili o dannosi.
I tre autori hanno esaminato le sedute di sedici pazienti nel corso di un intervallo di tempo e raccolto le valutazioni dei pazienti rispetto agli interventi dei terapeuti. Una volta esaminati i giudizi, i tre hanno ottenuto un risultato abbastanza sorprendente per chiunque sia alla ricerca della terapia perfetta.
I giudizi dei 16 pazienti che hanno preso in esame variavano incredibilmente da paziente a paziente e da seduta a seduta.
Che vuol dire, in soldoni?
Che forse gli psicoterapeuti hanno bisogno di focalizzarsi più sulla relazione con il paziente che sulla propria scuola di pensiero.
In passato, il gruppo di Wampold (un famoso ricercatore in area terapeutica) ha mostrato un effetto simile ma in modo diverso: non esiste alcuna evidenza dell’efficacia di un ingrediente specifico di qualche tipo di terapia. Cosa deve imparare, allora, un terapeuta? Anche se i manuali ci possono essere d’aiuto, forse è più utile farsi guidare dai pazienti e cercare di lavorare sull’alleanza e sulla relazione, piuttosto che sull’applicazione di una tecnica specifica. Gli studi su relazione e alleanza terapeutica continuano a mostrare come questi fattori siano i predittori più affidabili della buona riuscita di una terapia. I modelli possono essere buone mappe per imparare a muoversi con i pazienti, ma i pazienti ci raccontano spesso che le nostre mappe sono sbagliate, perché loro sono il territorio. Per riuscire a ottenere il meglio della terapia, se mappa e territorio non coincidono, non possiamo permetterci di incolpare il territorio.
Wislawa Szymborska l’aveva espresso meglio, senza troppi dati empirici, con la sua poesia “Mappe”
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buon umore
sul tavolo mi dispongono un mondo
che non è di questo mondo.