In questi giorni mi torna in testa la trama del film Melancholia. In melancholia Justine, la protagonista cronicamente depressa interpretata da Kirsten Dunst, viene assediata fin dall’inizio della vita coniugale da una invalidante e disperata sensazione di impotenza che la costringe a letto. Colpo di scena (molto in breve): a un certo punto si abbatte sulla terra l’ineluttabile minaccia del pianeta Melancholia, che inizialmente sembra deviare dall’orbita del pianeta terra ma poi decide di scagliarvisi contro e terminare tutti i suoi abitanti. La famiglia di Justine non riesce a reggere alla tensione, al punto che suo cognato (che la ospitava per aiutarla ad affrontare le crisi depressive) si toglie la vita. Una storia lontana (ma non così tanto) da quello che stiamo vivendo: è recente la notizia di una donna che si è tolta la vita per l’ossessione da COVID-19.
Torniamo a Melancholia: succede qualcosa di inaspettato. L’unica a guardare la minaccia con lucidità è proprio la protagonista, Justine. Sa cosa vuol dire la disperazione, è stata in contatto tutta la vita con essa. Non solo, sente che le persone intorno a lei sentono qualcosa che lei sente da molto tempo. Loro però si trovano completamente disorientate, mentre per lei l’impotenza non è una sensazione nuova. L’ha provata sentendo stretti gli abiti della superficialità, dell’opulenza, del livore e l’assenza dei propri genitori. Forse la minaccia è stavolta più autentica e spoglia tutti dei valori terreni mostrandone i limiti, meno evidenti in tempi di calma. Nel momento in cui l’umanità intera è in contatto con la propria natura fragile lei è già un passo avanti.
Nuovi valori, nuovi dolori
La storia di Melancholia la ritrovo nel mio lavoro con molte persone che seguo in terapia. Ovviamente, è inutile dire che non siamo sul ciglio dell’estinzione (o forse è utile dato che è un moomento in cui le parole vanno pesate bene). Tuttavia, in questo momento molte persone la cui psicopatologia era il risultato dei vestiti scomodi di una società dove al primo posto ci sono competizione, tempi pieni di nulla, superficialità e livore ingiustificato sono più lucide di tante altre che devono confrontarsi con qualcosa di nuovo.
Tanti sono costretti a scendere a patti con il fatto che l’essere umano sia a nudo e che il superfluo, che spesso ci allontana, ora è chiaramente un di più. Spesso, la psicopatologia non ha a che fare con l’anormalità, ma con il fatto che in molti abbiano dovuto affinare strumenti e trovare risorse in condizioni di solitudine molto più gravi di questa, in cui in più si sentivano isolati da una società che dissolve il valore delle connessioni umane (in una vita finita) per valorizzare l’agio, il prestigio, la perfezione e tutta la lista delle nostre armi narcisistiche che usiamo per affrontare il mondo.
Ora, molte di queste armi servono molto meno.
Una pandemia, a confronto, per alcuni di noi è ben poca cosa. In questa situazione possiamo essere più autenticamente uniti, anche se siamo isolati. Paradossalmente, potremmo essere più connessi di prima. Ciò che ci unisce può avere a che fare proprio con il riconoscimento del nostro limite e della nostra mortalità, di cui sempre più spesso tendevamo a dimenticarci. Questo mette al secondo posto tutta una serie di valori di cui non avevamo bisogno in primo luogo e che ci facevano stare molto male.
Nella vita di tutti i giorni cui siamo (eravamo?) abituati, dove indossavamo con orgoglio legge del più forte, del successo, del primo e dell’ultimo, un certo tipo di psicopatologia (quasi tutta la psicopatologia che si incontrava in studio qualche giorno fa) è dietro l’angolo. Ora il dolore che ci colpisce è diverso. quando va male ha a che fare con la preoccupazione per la sopravvivenza, se pensiamo ai posti più colpiti da questa pandemia. Quando va bene, è un dolore che ha a che fare con il doverci spogliare di abiti che in primo luogo non ci piacevano. Se è vero che questo disorienta, si tratta di abiti che a tutti stanno stretti e che a molti stanno strettissimi.
Siamo isolati, ma forse meno soli
Molte persone che ho in terapia osservano basiti i propri genitori e i propri amici in preda al panico. Con questi ì fino a qualche giorno prima intrattenevano dolorose conversazioni sulla carriera e sul valore personale, sulla sicurezza economica e sulla certezza del futuro. Nel vederli impauriti si sentono meno pazzi di quando consideravano molte di quelle cose dolorose e non così fondamentali, appunto degli abiti troppo stretti. Sono molto spesso più pronti della media ad affrontare il caos e l’incertezza. Meno isolati di quando ogni mattina si svegliavano e si sentivano soli.