L’infanzia è un periodo particolarmente delicato della vita, in cui strutturiamo il modo di relazionarci agli altri che useremo per il resto dei nostri giorni. Se le cose vanno bene, da adulti in genere riusciremo ad accedere flessibilmente a molte risorse di cui la natura ci ha dotati, per adattarci al meglio alla realtà che ci circonda: la capacità di accudire, di competere, di esplorare l’ambiente che ci circonda, di cooperare e di legarci affettivamente agli altri.
Invece, se durante l’infanzia un bambino (poi adolescente) si trova a doversi adattare a un genitore imprevedibile, a violenze o abusi, o a un’atmosfera genitoriale con una prevalente trascuratezza,egli dovrà svolgere due compiti apparentemente opposti:
- Garantire la vicinanza con il genitore
- Proteggersi dai comportamenti minacciosi messi in atto dal genitore stesso
In breve, l’adulto è sia la persona da cui correre per ricevere aiuto, sia la persona da cui scappare (davvero o metaforicamente) perché mette in pericolo la vita del bambino. La dolorosa soluzione a questo dilemma è l’adozione di strategie per rimanere in relazione con il genitore “limitandone” gli aspetti minacciosi.
Queste strategie (dette “strategie controllanti“) sono “cronicizzazioni” delle normali capacità di competere, di accudire e di sedurre di cui disponiamo tutti, ma diventano comportamenti messi in atto in prevalenza dal bambino poi diventato adolescente (e in seguito, da quel bambino una volta adulto). Diventeranno modalità di comportamento inflessibili e verranno usate in gran parte delle relazioni, anche fuori dalle relazioni familiari e anche da adulti.
Accudire, punire, sedurre. Un adattamento doloroso ad un’infanzia traumatica
Un bambino metterà in atto la strategia controllante accudente quando, ad esempio, si sentirà minacciato dall’esplosività e dall’imprevedibilità di un genitore emotivamente instabile o trascurato da un genitore profondamente depresso. In questo caso imparerà a stare molto attento agli sbalzi di umore del genitore (o al suo ritiro emotivo) per tenerlo a bada nel primo caso o per “vitalizzarlo” nel secondo, invertendo il ruolo e facendo da genitore al proprio genitore. In entrambi i casi il bambino riuscirà a far fronte allo sconforto dovuto ai comportamenti del padre o della madre restandovi in relazione.
Oppure, in presenza di un genitore violento, una strategia di controllo messa frequentemente in atto è quella controllante punitiva: si tratta dei figli cosiddetti “tirannici”, che spesso non fanno altro che cercare di anticipare le reazioni dei genitori violenti facendo semplicemente il primo passo: questo permette al bambino di non sentirsi impotente di fronte al comportamento del genitore e di poterlo prevedere “causandolo”, se pur questo processo avvenga in modo del tutto inconscio.
Una ulteriore strategia quella controllante sessualizzata, ovvero l’adozione di comportamenti seduttivi volti a manipolare il genitore, che molto spesso ha a sua volta perpetrato abusi sessuali nei confronti del proprio figlio ed è sensibile alla sua seduttività. Come nel caso della strategia controllante punitiva, in questo modo è possibile controllare (in parte) i comportamenti nocivi del genitore e far fronte all’impotenza legata all’abuso.
Dove finisce il dolore per un’infanzia negata?
In tutti questi casi, queste strategie tengono fuori dalla coscienza la ferita originaria: il dolore per un’infanzia senza cure, legato a comportamenti violenti, ad abusi sessuali e a forme di trascuratezza messi in atto dalle sole persone con il compito di proteggere: gli adulti. Il dolore infinito per queste ferite viene “dissociato” ma è sempre attivo e sotto soglia, mentre viene mascherato da modalità relazionali apparentemente violente, perverse o di accudimento. Dietro il volto di adulti violenti, sessualmente perversi o con la “sindrome della crocerossina” spesso si nasconde un’infanzia traumatica mai riconosciuta.