Nelle homepage di buona parte degli psicologi si parla spesso delle stanze di terapia come dei “luoghi sicuri”. Io stesso, nel mettere su il mio sito web mi sono chiesto se fosse il caso di inserire una piccola frase in merito. C’è sempre stato qualcosa, un impulso interiore o meglio un attrito (non saprei come meglio definire quella sensazione che ti dice di non cedere a una forte pressione sociale) che tuttavia mi ha dissuaso dal farlo. Non mi sono mai chiesto cosa, finché non sono stato direttamente interpellato in merito a più riprese dalle persone che attraversano il mio studio.
Un luogo sicuro… ne siamo sicuri?
Ci ho pensato e ripensato e alla fine sono giunto ad una conclusione, ripensando alla mia terapia, a come si è svolta, a come si svolgono le terapie dei miei pazienti e a cosa serve perché una psicoterapia vada bene. La risposta è stata una domanda: come si fa a dire che la stanza di terapia, un luogo in cui si affrontano emozioni soverchianti, vissuti traumatici, paure travolgenti, sia un luogo sicuro? Quanto una affermazione come “la terapia è un luogo sicuro” è lontana dall’esperienza di un paziente che arriva nella stanza di terapia sì con tanta speranza, ma anche con una buona dose di paura?
I pazienti si avvicinano alla terapia con il timore di essere nuovamente traditi, ridicolizzati messi alla gogna, bullizzati, esclusi, reificati e via discorrendo a seconda della specifica e singolare ferita aperta che vogliono curare.
“noi non trattiamo i pazienti curandoli per qualcosa che è stato loro fatto nel passato; piuttosto, cerchiamo di curarli per qualcosa che ancora fanno a se stessi e agli altri, per adattarsi a ciò che fu loro fatto nel passato.” Philip Bromberg
Allora cos’è la terapia?
L’unica cosa che si può dire per essere intellettualmente onesti con i nostri pazienti è che in terapia si tenta di costruire insieme uno spazio di sicurezza. Questo per un motivo paradossale: la maggior parte del lavoro che si fa per acquisire sicurezza è proprio il suo contrario. Ci si tiene per mano negli spazi insicuri e turbolenti dell’anima nella speranza di disconfermare le aspettative negative costruite sul mondo.
Il lavoro terapeutico è fatto di rotture della relazione della diade terapeutica che si riparano con molta fatica e con lo sforzo di entrambi. Nel lavorare attorno alla ferita che si vuole curare questa spesso si riapre, l’insicurezza riemerge. Lo sforzo del terapeuta è quello di capire in che modo ha contribuito al riaffiorare del dolore proprio per lavorare verso la sicurezza, che altro non è che la fiducia nella relazionalità. A differenza delle figure traumatizzanti, il terapeuta deve prendersi la responsabilità del dolore che provoca e riconoscerlo. Se questo non avviene, l’insicurezza rimane sempre alle porte e il paziente continua a vivere in guardia o come dice Bromberg all’ombra dello tsunami.
Non cantiamo vittoria se la partita non è iniziata
La terapia non è un gioco, anche se a volte si gioca. Nulla è sicura, anche se l’obiettivo è la sicurezza. George Atwood, padre dell’intersoggettività, citando il film “Il petroliere” (il cui titolo originale è “There Will Be Blood”) dice che nella terapia del trauma a un certo punto scorrerà del sangue. E’ un’immagine truce ma assolutamente vera
Parlare della terapia come un luogo sicuro è come cantare vittoria prima del fischio d’inizio.
Non fatelo.