Il più lungo studio mai condotto per analizzare quali fattori incidano sulla crescita sana di un individuo ha prodotto dei risultati sorprendenti. Un gruppo di ricercatori di Harvard ha seguito la vita di un campione di studenti e, a dispetto di ciò che si possa pensare, ha rilevato che i predittori più stabili di una vita serena e in salute non sono i livelli di colesterolo, l’aver seguito una dieta senza glutine, il successo o i soldi: le persone più felici e più longeve sono quelle con più relazioni intime e con qualcuno cui fare affidamento.
Un altro interessante lavoro della psicologa Susan Pinker mostra come alla base della longevità dei sardi (che hanno un numero di centenari circa sei volte più alto rispetto a quelli della penisola e dieci volte rispetto agli statunitensi) sembri esserci un maggior numero di relazioni intime e di interazioni faccia a faccia.
A quanto pare non importa cosa si fa per essere felici, importa piuttosto ciò da cui siamo circondati, il nostro contesto sociale, le nostre amicizie e i rapporti con i propri familiari.
Credo che questo abbia implicazioni profonde per chiunque voglia iniziare una terapia o per chiunque lavori nel campo della salute mentale, ma iniziamo per gradi.
Gran parte della ricerca contemporanea sulla psicoterapia e sulla farmacologia si concentra sulla riduzione dei sintomi, che a prima vista potrebbe sembrare un bene, perché sono i sintomi a far soffrire le persone. Questa idea è legata a doppio filo al modello medico, che è stato applicato con un certo successo alla pratica terapeutica. Ho un disturbo, ho dei sintomi, alla fine di una terapia non li avrò più o non tanto da raggiungere i criteri per il cosiddetto disturbo. Questo framework ha prodotto una serie di studi che mostrano quanto le terapie siano efficaci nel ridurre i sintomi. Si sono così sviluppati protocolli d’intervento specifici per sintomi specifici. Ti senti depresso? Ecco una terapia per la depressione. Hai subito un trauma? Facciamo un paio di settimane di trauma therapy.
C’è un piccolo problema: ad oggi, pochissimi studi mostrano che siano le specifiche tecniche usate dal terapeuta ad alleviare i sintomi. Continuano a spuntare meta-analisi (ovvero raccolte di studi), che mostrano come un focus sui sintomi con tecniche particolari abbia poco a che fare con il fatto che i sintomi scompaiano.
E’ come se faceste uno studio sul raffreddore e scopriste che più o meno tutti i rimedi vanno bene, dalla tisana della nonna alla tachipirina, e che non è tanto importante il rimedio specifico che si impiega. Qualcosa non funziona. Cosa fa stare meglio le persone?
Per scoprirlo, un altro gruppo di ricercatori si è focalizzato sull’analisi dei fattori comuni alle varie terapie che possono produrre un cambiamento nella sintomatologia del paziente. Ormai una mole di lavori sperimentali ha replicato lo stesso risultato: relazione terapeutica e empatia sono i più stabili predittori del successo di una terapia.
In altre parole, il successo di un terapeuta dipende meno dal suo personale kung fu (il modo con cui agisce sui sintomi) e molto di più dalla qualità della relazione che ha con il paziente, un elemento che forse ha molto a che fare con l’avvento dei cosiddetti approcci transdiagnostici (ovvero, non tanto incentrati sullo specifico disturbo ma applicabili a più “tipi” di sofferenza).
Cosa c’entra questo con lo studio di Harvard citato all’inizio? Da un lato il successo di una terapia è legato alla qualità della relazione tra terapeuta e paziente e da quanto il terapeuta comprenda il paziente. Dall’altro la qualità della vita, la longevità e la felicità delle persone sembrano d’altro canto dipendere dalla possibilità di avere una relazione intima e stabile. Personalmente, vedo un legame tra le due cose. Per capirlo meglio, bisogna tenere conto di un altro fattore molto importante: tra i più frequenti fattori di rischio per l’insorgere di disturbi psicologici ci sono proprio disfunzioni nelle relazioni interpersonali e la presenza di traumi. I traumi più dannosi per la salute mentale sembrano proprio quelli che avvengono tra le persone.
Forse i cosiddetti sintomi su cui si cerca di agire direttamente spesso non sono altro che lacerazioni del tessuto relazionale che ci mantiene in vita. Forse per aiutare i pazienti bisogna capire dove il tessuto si è lacerato e provare a intessere insieme una trama nuova. E’ necessario capire dove sono le ferite e cosa le fa sanguinare per guarirle.
Di seguito il Ted Talk di Robert Waldinger, che è l’ultimo responsabile dello studio di Harvard, il più lungo studio mai condotto.