Quando Freud aveva 10 anni, suo padre gli raccontò una storia. “Da ragazzo, mi incamminai per il parco di sabato. Ero ben vestito, ed avevo un cappello nuovo di pelliccia sulla testa. Un cristiano mi si parò d’avanti e me lo tolse con un sol colpo gridando “EBREO!”. Il piccolo Sigmund gli chiese “E tu? Cosa hai fatto?”. Jacob, era questo il nome di suo padre, gli rispose in modo pacato “L’ho ripreso”.
Questa fu una ferita che Freud portò con sé per tutta la vita. Personalmente, ho sempre immaginato che quell’episodio impregnato del desiderio di rivalsa fosse il primo seme da cui ha germogliato la psicoanalisi come strumento di rovesciamento del potere.
Dai suoi albori la psicoanalisi è stata infatti strumento sovversivo nei confronti degli aspetti più oppressivi della società. Non a caso, i libri di Freud sono stati tra i primi a essere bruciati dai Nazisti, e tenere una lezione su Sigmund nell’Unione Sovietica era praticamente impossibile. Gli unici ambienti culturali dove il pensiero analitico ha potuto attecchire sono stati paesi dove il controllo su cultura e popolazione non era così opprimente, e anche lì non ha avuto vita facile.
Ma perché hanno tutti così paura della psicoanalisi?
All’inizio erano le isteriche. Siamo nella Vienna dell’età vittoriana in cui il sesso è un tabù. Ora immaginate un neurologo che si mette a dire al mondo che i desideri sessuali oppressi, e che gli abusi che serpeggiavano nelle famiglie in cui di sesso non si poteva neanche parlare, erano molto probabilmente la causa di un disturbo abbastanza diffuso chiamato isteria. Freud parlava di vissuti ed emozioni in conflitto con la società.
Le pazienti di Freud erano infatti giovani donne che presentavano sintomi neurologici inspiegabili. Questi sintomi sparivano quando, dopo un’attenta esplorazione analitica, le emozioni conflittuali emergevano. Le donne si accorgevano di avere desideri che non pensavano di avere, di avere memorie dolorose che erano costrette a non ricordare, di covare una rabbia che non potevano esprimere.
Si trattava di donne costrette a tenere fuori dalla coscienza i loro impulsi più autentici e le memorie più scomode. Non è un caso se la prima pulsione a essere teorizzata da Freud fu la libido.
Un esempio noto è la paziente zero della psicoanalisi, Anna O., in cura presso il collega di Freud Josef Breuer, che tra tanti altri sintomi per un certo tempo non poté più bere acqua. Attraverso l’ipnosi il giovane Breuer riportò la paziente a ricordare che il sintomo era emerso quando aveva visto il cane della sua governante, che le stava piuttosto antipatica, leccare un po’ d’acqua dal bicchiere da cui avrebbe dovuto bere lei.
Una volta che Anna O. recuperò questo ricordo e le ritornò alla coscienza la rabbia che aveva provato nel vedere la scena, poté nuovamente tornare a bere. Anna non avrebbe mai potuto esprimere la sua rabbia in un altro contesto, perché si trattava di un’emozione che non si confaceva a una donna per bene nella Vienna vittoriana.
Nell’età della fretta e della vergogna, la psicoanalisi combatte una nuova rivoluzione.
La società di oggi non è più come quella dei tempi di Freud: la nostra sofferenza è cambiata profondamente. Sono nate nuove terapie che si sono adattate ai ritmi della società. Il mondo è pieno di nuove tecniche che spiegano come stare meglio nel più breve tempo possibile. Internet è pieno di liste di 5 punti per trovare l’equilibrio, per affrontare la depressione, per liberarti dell’ansia, dalla vergogna e via discorrendo. La velocità, la fretta e il ritorno alla produttività caratterizzano bene o male molti degli approcci contemporanei alla sofferenza.
Per adattarsi alla contemporanelità, anche la psicoanalisi ha dovuto evolversi, ma non ha smesso di essere rivoluzionaria.
- Se le persone cercano terapie brevi e soluzioni veloci, l’analisi insegna a rallentare.
- Se il DSM-5 (il sistema diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ti da un certo tempo per soffrire di un lutto (perché se soffri un po’ di più sei patologico), la psicoanalisi ti dice che perdere una persona cara può causarti una tristezza che non può avere un limite.
- Se la società ci impone di mostrare la versione migliore di noi ogni giorno, la psicoanalisi accoglie gli aspetti di cui ci vergognamo.
- Se amare oggi fa tanta paura, la psicoanalisi lavora dove la fiducia negli altri si interrompe.
La psicoanalisi è un lavoro continuo sulle ferite della nostra relazionalità e la relazione con il proprio terapeuta diventa un terreno di prova per attraversarle, capirle e sorprendersi a ritrovare la capacità di sentirsi al sicuro, attraversando le nostre insicurezze.
Chi propone soluzioni brevi, rapide e strategiche alla sofferenza accusa spesso (e giustamente) l’analisi di essere lunga. La scienza, di cui gli approcci brevi si fanno forti, dice proprio il contrario. Una recente disamina della letteratura apparsa sull’American Journal of Psychiatry mostra proprio come l’analisi sia efficace ed efficiente come tutte le altre terapie, ed è l’ultimo di una lunga serie.
Molte persone pensano però che in analisi ci voglia “più tempo per stare meglio” perché i trattamenti richiedono un certo tempo. E’ vero il contrario: in genere chi inizia un’analisi la continua nonostante i sintomi siano passati, perché i sinomi sono solo qualcosa che ci spinge a una domanda più profonda che l’incertezza e la frenesia della vita ci pone ogni giorno, senza lasciarci il tempo per rispondere. L’analisi ci impegna a recuperare il tempo quando la società ce lo sottrae. E’ un percorso per ritrovare la fiducia nelle relazioni in un mondo che ci chiama ad essere competitivi, performanti ma profondamente soli, ognuno con il proprio dolore.
La psicoanalisi è rivoluzionaria perché non combatte contro il tempo, ma impegna paziente e terapeuta in un lavoro per viverlo meglio. Sottraendoci ai ritmi incessanti che la società ci impone e interrogandoci sul nostro posto nel mondo, sui nostri desideri e sui nostri sentimenti, mira a ripristinare la nostra libertà di scelta.
Come ogni rivoluzione che reclama la libertà, la psicoanalisi deve fare paura a tutti.