La risposta è sì, ed è bene provare a spiegarne i perché.
Qualche tempo fa sono rimasto colpito da un’accesa discussione con alcuni colleghi, che mi chiedevano cosa “faccio” esattamente quando sto con un paziente che sta in questo o in quel modo, ansioso, dissociato e via dicendo.
Ero in forte imbarazzo, perché l’unica risposta che mi veniva in mente era “non faccio niente”. E credetemi non c’è nulla di più brutto che dire “non faccio niente” ed essere pagati.
Superato il primo imbarazzo cominciai a spiegarmi meglio.
Come fa un paziente a stare meglio se non facciamo niente? Ci ho riflettuto un po’ e ho pensato che, spinto dall’urgenza di “fare” qualcosa, ho quasi sempre sbagliato.
Ho sbagliato quasi sempre quando ho tentato di far capire che avevo capito, di fare qualcosa in nome dell’efficacia o della “cura”, della risoluzione dei sintomi, dell’urgenza di far stare meglio qualcuno.
Credo che questo problema sia presente in buona parte degli approcci terapeutici in varie forme: l’astinenza analitica nella psicoanalisi che permetteva di fare “interpretazioni corrette”. La rincorsa all’efficacia delle terapie “evidence based”, che a volte corre il rischio di far pensare alla nostra come a una disciplina medica, in cui i pazienti entrano con un male nella stanza di analisi ed escono rinnovati.
Il “fare” qualcosa può essere al centro della testardaggine terapeutica di ogni professionista. Purtroppo però, fare interpretazioni brillanti, dare soluzioni, spiegare come “si esce” dal proprio malessere ha spesso come unica conseguenza il far sentire i pazienti ancora più incapaci e stupidi quando non ci riescono. I pazienti sono lì e noi rimaniamo i terapeuti, quelli che li curano perché sono sani, esseri umani fondamentalmente diversi dai pazienti. Siamo sicuri che la capacità di cura di un terapeuta abbia a che fare con il distacco, con l’astinenza, con l’essere “risolti”? E’ possibile che al contrario, essere un buon terapeuta abbia più a che fare con il riconoscere il dolore dell’altro come qualcosa che può appartenere all’esperienza di tutti gli esseri umani, terapeuta incluso?
Viviamo in un’epoca che ci spinge continuamente a dimostrare, a essere per gli altri, a non tollerare l’impotenza e l’incapacità. Il che è paradossale, dato che attorno a noi l’incertezza e l’impotenza regnano sovrane e i fatti ci stanno dimostrando come il cercare di uscirne ha spesso effetti disastrosi.
Un interessante studio condotto ad Harvard e durato oltre 50 anni ha mostrato chiaramente come il più forte predittore della salute fisica e psicologica è l’aver avuto una vita di relazione sana. Forse per essere un po’ più felici serve la capacità di vivere le nostre inefficienze come caratteristiche umane, essere coscienti dei propri limiti, avere qualcuno che abbia voglia di addentrarsi nella nostra merda per farci capire che, per quanto brutta e puzzolente, ne siamo tutti per certi versi immersi a varie profondità. Penso anche che l’esplosione di movimenti basati sulla meditazione, sulla consapevolezza del corpo e sul vivere nel momento nasca da questo: il prezzo dell’efficienza è la vergogna per l’inefficienza.
Tornando al discorso con i colleghi, superato l’imbarazzo ho detto che le volte in cui sono stato ringraziato e ho visto qualche progresso è proprio quando ho chiuso la bocca, sono stato ad ascoltare e ho avuto la pazienza di dire qualcosa solo quando avevo capito dov’era chi avevo di fronte e quando ero anche io lì con lui.
Spesso, eravamo in un profondo pozzo di merda.
Ci vuole una forza straordinaria per stare nel pozzo e non fare niente, perché sei costretto a sentire la puzza anche tu e a ricordare tutte le volte in cui nel pozzo eri da solo e quanto è stato orribile. Non fare niente e farsi investire dal tanfo è la cosa più difficile del lavoro terapeutico. Spiegare dall’alto del buco come si fa a tapparsi il naso e la bocca è facile ma inutile, perché prima o poi bisogna pur respirare. L’unico modo per scendere nel pozzo è farsi spiegare come farlo da chi ci sta dentro, respirare a pieni polmoni, e dire “hai ragione, qui è impossibile respirare”, ma soltanto quando stai perdendo il fiato anche tu. La cosa interessante è che pensandoci, avevo visto moltissime volte quei colleghi essere altrettanto umani. Penso, però, che a volte sia difficile da terapeuti uscire dalla complessità dei propri ragionamenti per raggiungere i pazienti.
E allora che fate, ascoltate soltanto?
Spesso ci ritroviamo a rispondere a domande giustamente scettiche circa la nostra professione, come quelle che i miei colleghi mi avevano rivolto: ma nella pratica che fate? Invece di inventare risposte molto complicate, dovremmo imparare a riconoscere che il nostro mestiere è semplice ma molto doloroso, e per questo poche persone sono disposte a farlo.
Per questo ho creato un piccolo prontuario con le domande che più frequentemente irritano i terapeuti, sotto forma di discorso immaginario con delle risposte leggere, perché come ci insegna Calvino la leggerezza può essere un antidoto al peso della modernità.
Ma quindi voi psicologi che fate?
Ci sediamo ed ascoltiamo. Non molto altro.
Ascoltate soltanto?
Certo, forse è una cosa semplice, eppure non si vede tanto in giro. Questa domanda me ne fa venire in mente molte altre. Tu ricordi l’ultima volta che ti sei sentito ascoltato? Ricordi quando ti sei sentito profondamente compreso? Se sì com’è stato? Se no, quanto è stato brutto? Mi chiedo come mai ascoltare sia ritenuta una cosa così semplice. Perché se è così facile non è così frequente? E’ solo una mia impressione o di questi tempi il contatto autentico con gli altri è temuto, piuttosto che ricercato? Chissà se alla base di tanta sofferenza oggi non ci sia anche questo.
Ma non fate la stessa cosa che può fare un amico o un parente?
Senza dubbio un amico può farlo o anche un parente. Trovare un amico che stia ad ascoltare le nostre cose più dolorose non è così semplice. Dall’altro lato, c’è qualcosa della nostra epoca che rende estremamente difficile rompere la barriera della vergogna e confidarsi con amici e parenti. In pochi hanno il tempo. Ancora meno sono tanto in contatto con il proprio dolore e le proprie difficoltà da poter ascoltare quelle degli altri. A noi psicologi occorre un lungo lavoro personale per riuscire ad avere le orecchie tese e usare il nostro dolore come una feritoia attraverso cui possiamo comprendere il dolore degli altri.
Ma quindi è vero quello che dicono: fate gli psicologi perché avete problemi.
Non saprei. Ci sono tanti psicologi, è difficile parlare per tutti. Mi viene in mente una cosa però: è possibile essere umani senza avere problemi? Mi piacerebbe essere aiutato da una persona che di problemi non ne ha o non ne ha mai avuti? Cosa potrebbe capire della mia esperienza? Forse è importante che chi ci aiuta, invece che non avere problemi, sia in grado di riconoscere i propri, che sia capace di riconoscere il proprio dolore come una risorsa, e non come un deficit. A volte penso che questa domanda nasconda molte insidie, tra cui l’idea che la perfezione sia una cosa umana. Questa idea secondo me fa spazio a una vergogna travolgente, alla solitudine.
Per riassumere e per tornare al pozzo di merda, forse quando si è in due a respirare la stessa merda si può risalire insieme, senza illudersi che un odore così forte possa cancellarsi dalla testa facilmente. Chissà che il fetore non sia una possibilità umana da cui cerchiamo tutti di fuggire, perché non può che fare tanta paura.